Genova di spalle – Emanuele Dabbono

Genova di spalle è una storia di formazione ambientata in una provincia, alle spalle della Lanterna, ma non alla sua ombra, costruita e ispirata a persone reali, dove le vicende vengono raccontate in modo spesso tragicomico dalla voce volutamente adolescente del protagonista. Funziona come un diario, un puzzle sceneggiabile, dove il giovane Holden accosta dietro le acciaierie dell’ex Ansaldo, a districarsi fra saggi, scemi del villaggio, morte e stupore. E – assicura lui – non ci si sente mai del tutto innocenti, non ci si sente mai del tutto colpevoli. “A ripensarci adesso, era una stronzata. Ma allora avevo la sua voce in testa. La sua voce credibile, a dirmi di non darmi delle canzoni che non duravano più di un’estate. Che ci sono canzoni che ti trattano come il loro migliore amico. Ti scrollano di dosso la polvere e aprono la nestra su un cielo sereno, quando fuori tira pure pioggia, pure vento. Allora non sapevo che per andare avanti qualcosa lo devi pur cambiare. Che sia pizza, genere di musica, ragazza, posto dove andare in vacanza, posizione di dormire, magari fino a convinzione politica, squadra del cuore o tipo di musica, appunto. Magari se cambi non sei un ottuso. Magari. O magari fino e avevo ragione io. So solo che avevo 13 anni e mi ero sentito come quei vecchi che si lamentano non appena una delle loro amate tradizioni scompare, per lasciare il posto a qualcosa di nuovo, da maledire prima ancora di conoscere”.

Ti accorgi ben presto che non puoi pretendere dalla gente che sia come tu la sogni. Perchè non ne hai il diritto. E più vuoi raggiungere tutti, più rischi di perder quei pochi che a fatica avevi conquistato

Il perdono cerca di chiudere il buco che il rancore insiste ad allargare. E’ una questione di fiducia. Quando porti qualcuno in cima alla tua montagna e gli mostri quello che vedi del mondo da lì, apri una finestra sul tuo universo, affinche anche lui lo contenga nel suo sguardo. Se poi lui decide di tornare a valle, sarà difficile che ti venga voglia di riportarlo su a vedere quanto è più largo adesso il tuo orizzonte. Il male che senti è lungo a passare. Non puoi mettere l’acqua ossigenata sulle ferite interne, sono coperte dalla pelle, dai vestiti e più ti adoperi per nasconderle sotto i tuoi strati, più pesano e bruciano dentro, dove non le puoi toccare, curare. Dov’è difficile guarire.

“La felicità, che arriva e non resta mai. L’ospite che non inviti. L’ospite che se ne va prima che tu gli chieda di rimanere. Io quell’ospite l’ho cercato in tante di quelle persone sbagliate che mi sono stufato di fare feste e preparare inviti. Doveva essere una questione di equilibrio. Per imparare ad amare senza versare addosso all’altro tutto l’oceano che abbiamo dentro. O almeno, una goccia …alla volta. Non importa se qualcuno se ne va prima di aver anche solo assaggiato mezzo bicchiere. Ma secondo me, chi sa descrivere bene le cose, chi conosce le parole giuste da usare insomma, quelle cose non le ha mai vissute appieno. Perchè l’equilibrio è precario per definizione. Si cade e si ritorna sul filo. Che a volte si spezza di colpo anche se te, quello stracazzo di baricentro per non scivolare, l’avevi trovato. Perchè bisogna aver paura ma fidarsi. Mischiare dolcezza e cinismo. Scrivere e non mandare. Incazzarsi ed essere comprensivi. Dirsi ti amo e poi tenerselo per se. Essere sicurissimi ma restare nel dubbio. Dirsi per sempre e poi ci siamo lasciati. O pensare che mi bastavano i tuoi occhi per chiudere i miei.”

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